Struttura e reattività dell'ossido di grafene
Tra i materiali su cui la ricerca tecnologica sta investendo negli ultimi anni troviamo l’ossido di grafene, indicato di solito con la sigla GO. Si ricava dall’ossidazione della grafite, un allotropo del carbonio usata tra i vari impieghi anche per realizzare le matite. Come la grafite il GO conduce bene calore ed elettricità, ed è facile da lavorare per usarlo in diversi ambiti.
La prima volta che qualcuno sintetizzò questo materiale risale alla seconda metà dell’800, per la precisione al 1859. Il grafene tuttavia non suscitò grande interesse nella comunità scientifica prima del 2004, quando André Geim e Konstantin Novoselov riuscirono a isolarlo. Tale scoperta fruttò loro il premio Nobel per la Fisica sei anni dopo.
Struttura dell’ossido di grafene
Dal punto di vista molecolare il GO si presenta di base come un reticolo bidimensionale a strato singolo, che però può organizzarsi anche in più “livelli” sovrapposti. Gli atomi di carbonio che compongono questa molecola presentano ibridazione degli orbitali nella forma sp² e formano delle celle esagonali unite ai vertici. Possono esserci dei difetti che portano il carbonio a disporsi a pentagoni oppure ottagoni.
I vertici delle celle esagonali (ovvero gli atomi) legano dei gruppi funzionali contenenti ossigeno. Tra questi il gruppo ossidrilico (-OH), il carbossilico (-COOH), il carbonilico (C=O) e quello degli eteri. Questi esaminando la struttura dell’ossido di grafene si presentano come dei prolungamenti che sporgono dai bordi del reticolo.
La sintesi del materiale
La sintesi del GO utilizzata nel 1800 previse una reazione lenta (72-96 ore) in cui la grafite entrò in contatto a 60°C con cloruro di potassio (KCl) e acido nitrico (HNO3). Oggi esiste un sistema più efficace conosciuto come metodo Hummers-Offeman. Consiste nel far reagire fra di loro permanganato di potassio (KMnO4) con una soluzione di grafite, nitrato di sodio (NaNO3) e acido solforico (H2SO4).
Usando questo metodo si ottiene una sospensione di particelle di GO in un mezzo liquido. Sono però allo studio altre tecniche, tra cui la carbonizzazione idrotermale utilizzando come substrato di partenza il glucosio.
Le proprietà del materiale
Per natura l’ossido di grafene ha una forte tendenza idrofila, ma può formare sospensioni anche in alcuni solventi organici. Tra questi per esempio il glicole etilenico, un composto dalle proprietà anticongelanti. All’aspetto si presenta di colore nero e opaco come la grafite, e ne condivide la struttura lamellare. Il contenuto di ossigeno da parte del GO varia tra il 20 e il 30% e questo aspetto ne influenza alcune proprietà.
Se il materiale contiene percentuali più basse di ossigeno risulta un conduttore di calore ed elettricità. Questa tendenza però si abbassa man mano che la quantità di O2 aumenta, tanto che a percentuali alte il composto risulta più simile a un semiconduttore. Ha un’eccellente fotoluminescenza, ossia emette luce dopo essere stato esposto a una radiazione elettromagnetica.
L’ossido di grafene è molto igienico, in quanto respinge sa l’adesione da parte dei batteri che da specie micotiche (muffe). Questa proprietà lo rende molto interessante per la ricerca in campo medico. Rivestire con il GO gli strumenti chirurgici potrebbe ridurre il rischio di sviluppare infezioni nel periodo post-operatorio. In questo modo anche l’uso degli antibiotici potrebbe ridursi.
L’efficacia del materiale contro batteri e funghi dipende però sia da diversi parametri, tra cui l’esposizione e lo spessore dello strato. Pare che si sia dimostrato però già efficace nel contrastare la proliferazione dei ceppi di Staphylococcus aureus. Questo batterio è diffuso negli ambienti ospedalieri e risulta molto pericoloso per i soggetti convalescenti.
La reattività dell’ossido di grafene
La differenza principale fra l’rGO e il GO è il numero di gruppi funzionali contenenti ossigeno e idrogeno. Come proprietà è assimilabile a un semimetallo, ovvero per esempio al silicio o al boro. Per questo si sta valutando il suo impiego anche per la realizzazione di batterie beta-voltaiche, non ricaricabili ma con durata di alcune decine di anni.
Per migliorare l’ossido di grafene ridotto come supporto si è ricorsi anche al drogaggio della sua superficie con l’azoto (N). L’aggiunta di elemento infatti consente un miglior ancoraggio delle nanoparticelle e va a formare il sito attivo della reazione di ossidazione. Questa modifica ha consentito una maggiore efficacia a livello della produzione di energia.
Sempre l’rGO però torna utile come catalizzatore anche in alcune reazioni di idrogenazione. In particolare per la conversione di etilene in etano in presenza di idrogeno molecolare (H2), che avviene a 800°C .