A cosa serve la cromatografia
Quando si devono separare fra loro le singole componenti di una miscela la cromatografia è una delle possibili tecniche di separazione da utilizzare. Ce ne sono più di una, diverse fra loro per complessità di esecuzione ed efficacia in base ai casi. Quello che esamineremo sfrutta la velocità di migrazione delle componenti di una miscela tra due fasi, una mobile e una stazionaria.
Il termine per indicarla deriva infatti dalla parola greca χρῶμα, che significa colora. Storicamente la prima volta che qualcuno la sperimentò risale al 500 a.C., ad opera di Plinio il Vecchio, ma le basi delle tecniche moderne le lanciò nel 1906 il chimico Michail Semënovič Cvet. A lui si deve la scoperta di un metodo per separare i pigmenti delle foglie: clorofille, xantofille e carotenoidi.
Definizione e scoperta della cromatografia
Secondo la definizione data dall’Unione internazionale di chimica pura e applicata (IUPAC) si tratta di un metodo fisico di separazione. Le componenti da dividere sono divise fra due fasi, una fissa o stazionaria e l’altra mobile. Ci sono più tecniche, di cui possiamo nominare le tre più usate: quella su carta, quella su colonna e la tecnica su strato sottile (TLC).
Come accennato il primo a usare una tecnica di questo tipo fu Cvet. Il chimico partì da un estratto di foglie verdi, di cui pose una piccola quantità in cima a una colonna di vetro riempita con argilla. Fece poi colare nella colonna dell’etere di petrolio che trascinò con sé il campione di estratto, che scendendo si separò in più bande, ciascuna di un colore diverso e che si formava a velocità diversa dalle altre.
Proprio questo dettaglio portò a denominare cromatografia il sistema di separazione creato. Le tecniche attuali analizzano anche sostanze incolori, quindi si può dire che la denominazione ormai è desueta. Il principio che consente di dividere le componenti della miscela infatti è la velocità di migrazione che hanno sotto l’influenza della fase mobile. Vale a dire l’etere di petrolio nel caso dell’esperimento citato.
Dal 1906 in poi diversi chimici hanno sfruttato questo metodo a fini diversi. Il premio Nobel per la chimica Kuhn la usò per distinguere carotenoidi e vitamine verso la fine degli anni ’30. Nel 1952 poi Archer John Porter Martin, un biochimico inglese, ottenne lo stesso riconoscimento per l’invenzione della tecnica di ripartizione.
La tecnica di separazione cromatografica su carta
Uno dei sistemi più semplici e che spesso si propone come esperienza pratica di laboratorio agli studenti è la cromatografia su carta. La fase stazionaria consiste appunto in un foglio, e il campione da separare consiste in una piccola quantità di una soluzione liquida. Il foglio si immerge in un becker contenente la soluzione, e il solvente risale lungo la striscia di carta per capillarità portando con sé i vari soluti.
A seconda della solubilità delle varie componenti queste si depositeranno lungo il foglio in punti differenti. Quando hanno colorazioni diverse è facile distinguerle, ma se hanno una sfumatura uguale si possono utilizzare dei reattivi specifici per colorarle. In alternativa li si può esporre alle radiazioni UV e osservare la diversa fluorescenza che emettono dopo l’esposizione.
La cromatografia su carta risulta efficace per esempio per separare le diverse componenti degli inchiostri. In questo caso solvente, o meglio come eluente, possono tornare utili l’acetone (C3H6O) o l’alcol etilico (C2H6O). Volendo si può usare anche per separare le diverse forme di clorofilla contenute nelle foglie, per esempio partendo dagli spinaci.
Come visto nell’esperimento di Cvet un solvente efficiente è l’etere di petrolio, detto anche ottano, o anche in questo caso l’alcol etilico.
La tecnica di cromatografia su colonna di vetro
Volendo si può anche utilizzare un liquido come fase stazionaria, così come l’eluente usato può essere sia un fluido che un gas. Se come fase stazionaria si utilizza un materiale come la resina in forma di microsfere cariche positivamente o negativamente si può realizzare una cromatografia a scambio ionico. L’interazione fra la carica dei soluti presenti nella miscela e quella delle sfere di resina porta a diverse velocità di migrazione all’interno della fase stazionaria. La discesa dell’eluente avviene per gravità.
In questa tecnica distinguiamo fra le resine considerate scambiatori di cationi (hanno carica “-“) e gli scambiatori di anioni (con carica “+”). Come fase mobile si utilizza come eluente una soluzione tampone contenente un sale la cui concentrazione si può variare per alterare la velocità di migrazione. Sempre nella tecnica su colonna altrimenti si può ricorrere anche al metodo di esclusione molecolare.
Questa metodologia discrimina gli analiti in base alla forma e al peso molecolare. Nella colonna si vetro troviamo sempre sfere di resina, ma invece di essere dotate di cariche presentano dei pori o delle fessure. Le molecole di minori dimensioni passano più facilmente e dunque la loro eluizione è più veloce, mentre per quelle più grandi risulta più complicato.
La Thin Layer Chromatography (TLC)
A questo scopo si usa una lastrina di vetro o di metallo, su cui si pone a un’estremità una goccia del campione da analizzare. A questo punto si immerge la lastrina nell’eluente, ossia la fase mobile. Questo risale per capillarità lungo il gel, come nella tecnica su carta.