Tipologie di trapianti
Per definire a livello generali i trapianti possiamo dire che sono interventi chirurgici che mirano a sostituire organi o tessuti danneggiati con altri sani e funzionali. Questi possono provenire da un altro individuo, detto donatore, dallo stesso individuo o addirittura da un fonte non umana. La Medicina ha esplorato e continua a cercare più vie per far sì che sempre più pazienti in attesa abbiano accesso a questo intervento.
Spesso ricorrere a un trapianto rappresenta l’unica possibilità di sopravvivenza per i pazienti, e la ricerca lavora per renderli sempre più sicuri. L’ostacolo principale quando è presente un donatore è legato alla possibilità di rigetto dell’organo o del tessuto, provocata dal sistema immunitario del paziente. Più affini saranno donatore e ricevente, minore sarà la reazione dell’organismo.
Le tipologie di trapianti più comuni
Possiamo partire a definire cosa è possibile trapiantare, a partire dal caso più comune che sono le trasfusioni di sangue.
Si tratta di un trapianto di tessuto semplice che si effettua tramite endovena, ma è possibile anche effettuare un trasferimento di cellule come nel caso delle staminali. Queste possono provenire dal midollo osseo, dal cordone ombelicale o da un feto (embrione di almeno 8 settimane).
I trapianti prevedono anche parti di organo, come nel caso del fegato di cui è sufficiente prelevare una porzione da un donatore compatibile. In altri casi questi prevedono l’espianto e l’inserimento di un organo completo (cuore o rene) o di più tessuti riuniti insieme. In quest’ultimo caso si parla di trapianto composito e un esempio è quello di mano, piede o viso. In queste parti corporee infatti troviamo ossa, muscoli e tendini.
Il caso del trapianto composito è peculiare e spesso oggetto di controversie perché non risulta essenziale per la vita ma può migliorarne la qualità per il paziente. Nel caso in cui invece un donatore fornisce un organo o parti di esso l’obiettivo è prolungare la vita del paziente. Diversamente questo andrebbe presto incontro alla morte o alla necessità di macchinari di supporto alle funzioni vitali.
I tessuti, le cellule o gli organi se non provengono dallo stesso individuo possono essere forniti da un donatore compatibile dal punto di vista genetico. Il caso ideale è quando a fornire i tessuti è quello in cui a fornirli è un gemello omozigote del paziente, che possiede lo stesso patrimonio genetico. In generale un membro interno alla famiglia d’origine del paziente riscontra una maggiore compatibilità.
Quando è possibile l’autotrapianto
I trapianti più sicuri dal punto di vista della compatibilità sono quelli di natura autologa, ovvero quando è l’individuo stesso a fungere da donatore. In questo caso infatti non è necessario il ricorso alla terapia immunosoppressiva perché non si verifica rigetto. In genere si ricorre a questo trattamento quando è necessario fornire al paziente delle cellule staminali ematopoietiche.
Si tratta di una terapia efficace per curare malattie del sangue come la leucemia o i tumori chemio-radiosensibili. Sono patologie che richiedendo trattamenti aggressivi possono provocare danni midollari. Di conseguenza gli elementi corpuscolati del sangue calano, e la reinfusione di staminali permette di riportarne la conta a livelli accettabili. Il primo caso documentato di questo trapianto risale al 1959 e riguardò una bimba.
Fino agli anni ’80 questo i trapianti autologhi di staminali si ritenevano possibili sono su pazienti di età inferiore a cinquant’anni. Adesso invece se si ha a che fare con un individuo in buone condizioni cliniche è possibile ricorrere a questa terapia anche fino a settant’anni. Per accertarsene occorre svolgere un accurato screening pre-trapianto. Dopodiché si somministra un fattore di crescita per aumentare le staminali circolanti.
Segue un periodo di condizionamento per eliminare eventuali cellule patologiche in circolo prima di prelevare le ematopoietiche dal sangue periferico. Queste vengono reinfuse per endovena facendo stendere il paziente. Si tratta di una procedura poco invasiva a confronto del trapianto di midollo osseo, che richiede anestesia generale e vede un attecchimento più rapido delle cellule.
Come funzionano i trapianti allogenici
Quando a fornire i tessuti, le cellule o gli organi è un individuo diverso dal ricevente si parla di trapianto allogenico. Può capitare anche quando c’è la necessità di staminali ematopoietiche, ma a differenza del caso autologo queste per questo istocompatibili possono provocare rigetto. A seconda di quando si verifica può essere classificato come iperacuto, acuto o cronico. Il primo avviene entro poche ore, l’ultimo a distanza di mesi.
Nel caso dei trapianti allogenici di staminali può comparire una patologia nota come Graft Versus Host Disease – GVHD.
I sintomi principali sono ittero, problemi intestinali ed eruzioni cutanee evidenti, ma può arrivare a compromettere l’intero organismo. Per questa condizione così come il rigetto che segue il trapianto di un organo si ricorre a farmaci immunosoppressori. Questo però comporta anche essere più suscettibili alle infezioni.
A seconda dell’organo il rigetto insorge dopo tempistiche variabili. Nel caso dei polmoni il 55% dei casi si verifica entro il primo anno, mentre quando si riceve un cuore di solito i problemi insorgono entro la prima settimana. A volte la causa è da ricercare nella risposta dei linfociti T (rigetto cellulare), ma può anche essere di tipo umorale se a provocarla sono gli anticorpi anti-HLA.
Secondo le linee guida dell’OMS la prima scelta per il trapianto allogenico di organo deve essere un donatore deceduto. Gli organi più trapiantati sono i reni, il fegato, il cuore e i polmoni. Il primo di questi permette a pazienti con insufficienza renale di non essere più dipendenti dalla dialisi, gli altri sono tutti interventi salvavita.