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La natura corpuscolare della luce: l’effetto Compton

La natura corpuscolare della luce: l’effetto Compton

effetto Compton - la natura corpuscolare della luce
  • Nausicaa Tecchio
  • 23 Maggio 2025
  • Consigli per lo studio
  • 5 minuti

L'effetto Compton e l'esistenza dei fotoni

Osservato e documentato per la prima volta nel 1923, l’effetto Compton ha l’importanza di aver confermato l’intuizione di Einstein sulla natura corpuscolare della luce. L’esperimento usato dallo scienziato Arthur Compton per dimostrare l’esistenza dei fotoni è noto oggi come “esperimento zero” in quanto inequivocabile.

I fotoni non sono altro che le particelle che compongono la luce, definiti da Einstein come dei “pacchetti” di energia prima dell’esperimento di Compton. Il famoso fisico però non parlò di particelle, ma affermò che questi elementi fossero in grado di spostarsi. L’idea dei “pacchetti di energia” derivava a sua volta dagli studi di Planck sulla radiazione emessa dal corpo nero.

Indice
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L’esperimento che definì l’effetto Compton 

Per la sua prova Arthur Compton utilizzò prima di tutto una sorgente di raggi X.
La radiazione emessa da questo apparecchio venne fatta passare attraverso attraversando un monocromatore e un collimatore. Questo rese il fascio monocromatico e parallelo, con una lunghezza d’onda pari a 7,09 x 10-11 m. La banda dei raggi X comprende tutte le radiazioni comprese fra λ = 10-9 e λ = 10-11 m.

Lo scienziato a cui si deve l’effetto Compton poi indirizzò la radiazione emessa verso un bersaglio di grafite (una lamina), circondato da delle barriere di piombo. Poi usò il rilevatore di raggi X per catturare la radiazione che si diffondeva dopo aver raggiunto il bersaglio deviando con diverse angolazioni rispetto alla direzione seguita prima. Infine riportò tutti i valori all’interno di un grafico per analizzarli in seguito. 

Dalle misurazioni emerse che la lunghezza d’onda della radiazione finale (λf) era maggiore di quella dei raggi emessi dalla sorgente, ossia la radiazione incidente (λi). La variazione registrata fra λf e λi risultava legata all’ampiezza dell’angolo θ con cui i raggi si diffondono dopo aver colpito il bersaglio. Per valori θ intorno ai 90° si registravano i valori di λf più alti, ovvero 7,31 x 10-11 m.

 Assumendo solo la natura ondulatoria della luce tuttavia i raggi avrebbero dovuto diffondersi in ogni direzione con la stessa lunghezza d’onda. Per spiegare questo risultato ad Arthur Compton non restò che concludere che i raggi X urtando la grafite si fossero comportati come particelle cariche e dotate di impulso.  

La definizione di fotone e la sua energia 

Se l’effetto Compton dimostra la natura corpuscolare delle onde luminose è ora di definire come siano fatte queste particelle.
Il termine che le identifica, ossia fotoni, nacque nel 1926 e a coniarlo non fu Compton ma Gilbert Lewis. Il simbolo del fotone è la lettera greca γ e lo si trova in ogni tipo di radiazione elettromagnetica, che perciò risulta essere anche un flusso di fotoni. 

Urtando contro un bersaglio come la lamina di grafite dell’esperimento il fotone perde parte della propria energia. Ma qual è l’energia posseduta dal fotone?

Per calcolarla ci si può basare sulla relazione di Planck, ovvero E = h x f. In questa formula h rappresenta la costante di Planck e ha un valore pari a 6,626 x 10-34 J x s, mentre f (più spesso ν) è la frequenza dell’onda. 
Nel vuoto i fotoni si muovono alla velocità della luce (c = 3 x 108 km/s). Ma una volta che urtano gli elettroni della grafite nell’esperimento legato all’effetto Compton la lunghezza d’onda varia secondo la formula che vediamo di seguito. La lunghezza λf = λi + h/me x c (1 – cosϕ). Anche qui h rappresenta la costante di Planck, me invece è la massa dell’elettrone contro cui urta il fotone. Corrisponde a 9,1 x 10-31 kg.

L’angolo ϕ infine è quello che forma l’elettrone che diffonde (o meglio rincula) dopo l’urto con il fotone. Non va confuso con l’angolo θ nominato prima che invece è quello formato dalla diffusione del fotone dopo aver impattato contro il bersaglio di grafite. Quando il valore di ϕ è pari a 180° si ha la massima lunghezza d’onda possibile del fotone diffuso. 

Un esercizio sull’effetto Compton 

Proviamo a utilizzare le formule viste in precedenza osservando un caso pratico.

Supponiamo di avere una radiazione luminosa di tipo monocromatico che viaggi a una frequenza di 3,1 x 1017 Hz e di utilizzarla per riprodurre l’esperimento di Compton. Se dopo l’impatto l’angolo ϕ è di ampiezza pari a 128° calcola l’energia del fotone dopo la diffusione dovuta all’urto contro il bersaglio. 

Per risolvere questo problema dobbiamo prima di tutto sostituire i dati nella formula vista al paragrafo precedente, ossia λf = λi + h/me x c (1 – cosϕ). Conosciamo la frequenza iniziale e sappiamo che è legata alla velocità c dalla relazione c = λ x f. Quindi λi = c/λ e 3 x 108/3,1 x 1017 = 9,6 x 10-10 m. A questo punto ci sono tutti i dati necessari per trovare λf.

Possiamo perciò sostituire i dati nella formula 9,6 x10-10 m + 6,62 x 10-34 Js/(9,1 x 10-31 kg x 3 x 108 km/s) x (1 + 0,62). Ma poiché occorre trovare l’energia del fotone diffuso è pari a E = h x ffinale = h x c/ λf possiamo anche calcolarla in una sola mossa. Quindi mettendo la formula di prima al denominatore si ottiene 6,62 x 10-34 Js x 3 x 108/[9,6 x 1010 m + 6,62 x 10-34 Js/(9,1 x 10-31 kg x 3 x 108 km/s) x (1 + 0,62)]. Il risultato è 2,06 x 10-16 J.

Applicazioni in Astrofisica

Oltre ad aver sancito la natura bivalente della luce come particella e come onda, gli studi di Compton è risultato di profondo interesse per gli astrofisici.
Per la precisione però nel loro campo è rilevante l’effetto Compton inverso, ovvero l’interazione fra un elettrone relativistico in movimento e un fotone con energia inferiore. L’elettrone possiede energia cinetica pari a  ec = mec2(γ − 1), mentre quella del fotone come prima sarà hf. 
 

Al momento dell’urto fra le due particelle si avrà un trasferimento di energia dall’elettrone al fotone, ossia l’inverno di quanto avveniva nell’esperimento di Compton. La frequenza del fotone incidente prima e dopo l’urto sono legate fra di loro dalla relazione fi = fiγ(1 – βcosθ). Se però l’angolo θ ha valore 0 o allora nella relazione sparisce il fattore 1 – βcosθ.

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